L'arte della pace. Ovunque nel mondo, dove c’è danza c’è bellezza
Dalla magica sinergia della coppia Nureyev-Fonteyn, lui tartaro e lei britannica, alla disciplina di Bolle e alla competizione sana. Parla Anna Maria Prina, ex direttrice della Scuola di Ballo della Scala
di Cristina Penco
Foto: Anna Maria Prina con Nureyev
«Quando sono diventata direttrice, essendo l’unica donna
in un mondo esclusivamente maschile,
all’inizio non è stato facile.
C’era sempre qualcuno che nelle riunioni
faceva le battute o mi zittiva».
Per oltre trent’anni ha formato talenti della danza ed étoile destinati a brillare nel firmamento internazionale. Nominata direttrice della Scuola di Ballo del Teatro alla Scala di Milano a metà degli anni Settanta – incarico che ha ricoperto fino ai primi del Duemila – Anna Maria Prina ha permesso all’istituto scaligero di acquistare nuovo prestigio sulla scena mondiale della sesta arte. È un viaggio appassionante tra i suoi ricordi quello in cui ci conduce nel suo nuovo libro ‘Incontro con la danza’ (il volume di Gremese Editore, da lei scritto in collaborazione con Francesco Borelli, sarà disponibile dal 3 aprile 2023).
Tempra «austro-ungarica», come sottolinea lei con autoironia, costante passione e desiderio di pace, dentro e fuori di sé: al ‘Corriere dell’italianità’ la celebre Madame Prina svela i segreti del suo percorso professionale e umano fuori dall’ordinario.

Ballerina, coreografa, insegnante, direttrice, consulente, membro di giuria. I ruoli che ha rivestito sono molti. Ha però dichiarato di sentirsi maggiormente legata all’ambito didattico. Che cosa contraddistingue, nel suo settore, un valido insegnante?
«Ritengo che il requisito preliminare sia una dote innata, ovvero la voglia di dare e di trasmettere agli altri. Oltre ad avere una solida preparazione, un insegnante dovrebbe stimolare negli allievi una curiosità che vada al di là dell’esecuzione. È uno scambio continuo. Servono esperienza, cultura, sensibilità, empatia e rispetto. Insegnare in una scuola come quella della Scala, che è anche un grande teatro, significa aiutare gli allievi a diventare danzatori migliori e consapevoli, ma anche persone buone, ovvero rette, oneste, curiose, desiderose di imparare. È con questi valori che si diventa bravi professionisti».
È stata la direttrice più longeva, fortemente innovatrice. Può farci qualche esempio rispetto ai principali cambiamenti che ha introdotto?
«Ho rivoluzionato i metodi e ho precorso i tempi. Penso, per esempio, all’inserimento della danza contemporanea già nel 1975 e a quello di discipline come il Pilates, ma non solo. Ho introdotto il doppio diploma in danza classico-accademica e in contemporanea, e ancora ho avviato il primo corso di propedeutica alla danza e per insegnanti».
Ha dato un’importante legittimazione alla danza maschile. Tra i suoi più celebri allievi figura Roberto Bolle, portabandiera dell’eccellenza scaligera e tricolore sui palcoscenici di tutto il mondo. Secondo lei, che lo conosce così bene, quali tratti gli hanno permesso di diventare una luminosa étoile?
«Fisicamente Bolle possedeva tutte le qualità desiderabili per un danzatore. Diligente ed educato, Roberto è sempre stato un allievo esemplare, molto disciplinato e determinato. E questo è importantissimo, in generale: se non si lavora intensamente, non si arriva da nessuna parte».
Chi ha talento è destinato a emergere in qualunque circostanza?
«Ritengo di sì. Se si è davvero talentuosi, prima o poi si incontra qualcuno che dà un’opportunità. È quello che è successo a me quando, con una telefonata in piena notte, nell’estate del 1974, l’allora sovrintendente della Scala, Paolo Grassi, mi affidò la direzione della Scuola di ballo con la responsabilità di formare futuri danzatori. Naturalmente per emergere, accanto al talento occorrono pure dedizione, umiltà e passione».
Nel 1963 è stata una delle cinque ballerine prescelte della Scala per il programma di scambio con il Teatro Bolshoi di Mosca. È stata anche la prima ballerina solista straniera a calcare un palcoscenico russo nel Novecento. Nel suo libro ricorda che apprese i primi rudimenti della lingua russa con un’amica ucraina, Evelina Schatz. A distanza di un anno dall’esplosione del conflitto russo-ucraino, come vive la tragedia che colpisce due territori e popoli a cui è tanto legata, per non parlare delle ricadute sui loro danzatori e non solo?
«Provo un fortissimo dispiacere. Da artista vorrei tanto che non ci fossero barriere erette al pari dei confini geografici. Per me la politica non dovrebbe mai intromettersi nella danza e viceversa».
La danza unisce, anziché dividere?
«Assolutamente sì, la danza è portatrice di pace e di bellezza. In qualsiasi parte del mondo ci si esibisca e qualunque lingua si parli, tramite la danza ci si può sentire bene e lavorare in armonia. Penso per esempio alla coppia artistica Nureyev-Fonteyn (negli anni Sessanta del Novecento), lui tartaro e lei britannica. Grazie alla danza, insieme hanno trovato una magica sinergia che si è espressa al meglio sui palcoscenici del mondo. La diversità porta ricchezza».
Nureyev diceva:
“Io cerco di essere il meglio di me stesso,
non meglio di qualcun altro”.
Ogni volta che qualcuno suscita ammirazione in me
è motivo di grande stimolo
per il mio miglioramento personale e professionale».
È un ambiente molto competitivo. Come l’ha vissuto da questo punto di vista?
«Fermo restando che la passione è il grande motore dei ballerini, certamente una sana dose di ambizione non guasta. Come nel mondo dello sport e della musica, anche nella danza si vivono momenti di grande competitività. Credo che sia nella natura selettiva di queste discipline. Pochissimi emergono ad alti livelli. Ma gli altri possono sempre raggiungere traguardi personali e riconoscimenti importanti. Personalmente non amo la rivalità. Ho sempre guardato agli altri non come avversari su cui primeggiare, bensì come modelli a cui ispirarmi. Nureyev diceva: “Io cerco di essere il meglio di me stesso, non meglio di qualcun altro”. Ogni volta che qualcuno suscita ammirazione in me è motivo di grande stimolo per il mio miglioramento personale e professionale».
Cosa significa per lei essere una donna e una professionista libera?
«Quando sono diventata direttrice, essendo l’unica donna in un mondo esclusivamente maschile, all’inizio non è stato facile. C’era sempre qualcuno che nelle riunioni faceva le battute o mi zittiva. Ma col tempo sono riuscita a farmi accettare e apprezzare per quella che ero, per la competenza nel mio campo. Ho sempre agito secondo i miei principi e il mio istinto, in pace con me stessa, senza secondi fini e comportandomi in modo trasparente. Questo mi ha dato grande libertà, che mi sono conquistata da sola. Ne sono orgogliosa».
