Perché l’Unione europea non è una forza di pace?
Cosa poteva, può fare l’Ue per dirimere il conflitto in Ucraina? Nulla, o così poco, dato che la politica estera, la diplomazia e la sicurezza rimangono competenze esclusive di ognuno dei 27 Stati membri. A colloquio con due esperti, Piero Graglia e Filippo Giuffrida, ripercorrendo il filo di quei trattati attraverso i quali si è tentato, invano, di fornire una voce unica e coerente all’Unione.
Di Valeria Camia Bruxelles 1 maggio 2025
Era il 2012 quando all’Unione europea fu assegnato il premio Nobel per la pace «per aver contribuito per oltre sei decenni al progresso della pace e della riconciliazione, della democrazia e dei diritti umani in Europa». Con due guerre alle porte e oltre cinquanta conflitti attivi nel mondo, che ne è del ruolo dell’Ue come attore di pace oggi?
Rispondere a questa domanda significa chiedersi se l’Unione abbia i mezzi per raggiungere i suoi obiettivi di politica estera e quale sia il suo ruolo nel mondo, tra impegno per la diplomazia, stabilità internazionale e, appunto, promozione della pace. Guardando all’interno dell’Ue, si osserva un gran numero di riforme volte a migliorare il coordinamento nelle risposte di politica estera, ma (spesso) limitate da divisioni tra gli Stati membri.
Di «azione esterna» in Europa se ne discute dai tempi del Trattato di Maastricht del 1992 che ha fatto proprio della Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) uno dei tre pilastri dell’Unione, «senza però riuscire a creare un sistema decisionale efficace, e men che meno capace di darsi strumenti militari di azione», precisa Filippo Giuffrida, direttore dell’Istituto europeo di Studi giuridici e di Comunicazione.
Non ci riuscì nemmeno la Conferenza intergovernativa del 1999 che portò alla stesura del Trattato di Amsterdam. Volto a creare una struttura di politica estera che permettesse all’Europa di agire in modo efficiente (a fronte di conflitti come quello nei Balcani), il trattato adottò miglioramenti che alla fine furono solo minimi e cosmetici.