Giosuè Carducci, tra culto della libertà e sentimento

di Sandra Persello, docente di Lettere

Il motivo centrale della produzione carducciana, oltre al carattere funebre-nostalgico come tema più profondo della produzione dello scrittore versiliese (1835-1907), si rinviene nei momenti in cui il poeta si ripiega su di sé, manifestando la sua vena più schietta e vera e, nel contempo, rinuncia al proposito civile e patriottico.

La storia di Giosuè (o forse Giosue) Carducci appare, inoltre, come dominata costantemente dalla sofferenza di un contrasto, di una situazione sentimentale.

A confronto dei classicisti contemporanei, al pari dei quali si propone di reagire al fiacco sentimentalismo degli ultimi romantici, l’Autore rivela una originale personalità, sostenuta da vive esigenze di rinnovamento.

Il suo classicismo non si esaurisce quindi in una retorica e formale fedeltà alla tradizione espressiva nazionale, bensì si mostra capace di tradursi in una concezione morale derivata in modo attivo dai classici, il che ben si accorda con la sensibilità illuministica contemporanea, capace di esaltare l’umana operosità nelle sue varie forme.

Appaiono evidenti, pertanto, l’intento ad educare ad una nuova coscienza civile e morale, il culto della libertà e della patria, che possono realizzarsi tramite la poesia di una umanità schietta, combattiva, fiduciosa nel proprio operare e attraverso la disciplina dei classici.

Egli giunge in tal modo ad affermare l’esigenza di “semplicità espressiva in soggetti naturali”. Ma l’uomo “vero” per lui è l’uomo “classico”, con una sostanziale robustezza morale, che si sente parte della collettività umana.

Presente è quindi il contrasto tra l’ideale ed il reale, il percepire il sentimento della vita come incessante sforzo di inseguire sogni sfuggenti, il senso della morte come dissoluzione, eterno ed implacabile fluire della vita, il cadere di ogni cosa umana.

Frequenta, a Firenze, le scuole dei padri Scolopi, dove affronta lo studio di Dante, della Letteratura del Rinascimento, di Parini, Alfieri, Foscolo e Leopardi: è in questo contesto che auspica una poesia vigorosa e laica di ispirazione.

Nel 1856 si laurea alla Scuola Normale Superiore di Pisa e formula il proposito di conciliare la modernità con la tradizione, richiamando i tempi moderni ai grandi valori del passato.

Riflesso di questa prima formazione carducciana è la raccolta di Rime nel 1857.

La durezza delle condizioni economiche in cui si dibatteva la famiglia, il suicidio del fratello Dante, l’obbligo di provvedere al mantenimento da parte sua della famiglia, alimentano il travaglio del suo spirito giovanile.

Nel 1860 assume la cattedra di Letteratura italiana all’Università di Bologna, dove insegna sino al 1904. Qui si accosta alla cultura europea, esce in gran parte dall’angusto classicismo della sua prima età e condivide l’idea che la ragione, guidata dalle scienze sperimentali, possa distruggere superstizione e false credenze.

È nelle Rime nuove che i motivi enunciati nei Giambi si spiegano in alta poesia, mentre insegue, nella rievocazione dell’infanzia, un suo ideale di vita libera ed esprime la stanchezza della vita e della lotta quotidiana.

Il 1870 si apre per Carducci con altri gravi lutti: perde la madre e un figlio. A questo dolore si accompagna però un grande successo come poeta.

Nel contempo inizia una nuova relazione amorosa.

Nelle Odi barbare e in Rime e ritmi, quando ormai si è spento l’impeto polemico, riaffiora il tema più profondo dello spirito del poeta, quel sentimento, che acquista di intensità proprio perché sorge da una desolata intuizione della vanità della vita. In tal modo egli si volge sempre più a una poesia intima e malinconica, in cui il motivo dominante appare quel contrasto di vita e di morte, che in tanta parte dei versi precedenti è come sotteso. Questa poesia si fa più lieve e si apre a sensazioni più sottili e intense.

Non è da ricercare comunque nei suoi versi l’esito di una meditazione di natura filosofica, bensì un modo “primitivo” di avvertire il problema: senso della morte come assenza dalla fruizione del sole, privazione dell’essere e della vita come pura espansione fisica. Esempio è Pianto antico, “di sempre”, da quando un padre ha accompagnato alla tomba un suo nato e ha poi assistito al ritorno implacabile del sole e dei colori.

L’albero a cui tendevi

La pargoletta mano,

il verde melograno

da’ bei vermigli fior,

[…]

Tu fior della mia pianta

[…]

Sei ne la terra fredda,

sei ne la terra negra;

né il sol più ti rallegra

né ti risveglia amor.

Pure in San Martino, all’apparenza nostalgico ricordo dell’adolescenza, permane un’ombra delle torbide preoccupazioni, simboleggiate dagli stormi di uccelli neri, che migrano nel vespero.

Nel 1890 viene nominato senatore del Regno.

Gli ultimi anni continuano ad essere caratterizzati da una febbrile attività editoriale e poetica, consacrando la sua posizione di poeta ufficiale dell’Italia monarchica.

Vince il premio Nobel per la Letteratura nel 1904, poco prima della morte, avvenuta a Bologna il 16 febbraio 1907.

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