Chi ama l'italiano, lo traduce bene

L’intervista a Sara Crimi, che ha curato l’edizione italiana di “Spare”. Il rispetto per la lingua italiana e l’arte importante della traduzione  

di Cristina Penco

È una materia viva, in continua evoluzione e ricca di sfaccettature, la lingua italiana. Lo sanno bene i traduttori editoriali dello Stivale, che si trovano a lavorare sistematicamente con questo elemento, immateriale e tangibile allo stesso tempo. E lo fanno secondo un percorso professionale altamente specializzato e strutturato, fatto di sapiente artigianalità e rigore scientifico, a maggior ragione avendo a che fare con le peculiarità di due linguaggi scritti. Lo scrittore – e traduttore – portoghese José Saramago, insignito del Nobel per la letteratura nel 1998, parlava di una sorta di “passaggio alchemico” nel senso di “una trasformazione in cui quello che è deve trasformarsi in un’altra cosa per continuare a essere quello che era stato”. Spiegava ancora Saramago: “Il dialogo tra l'autore e il traduttore, nel rapporto tra il testo che è e il testo che sarà, non è solo un dialogo tra due personalità particolari che devono essere completate, è soprattutto un incontro tra due culture collettive che va riconosciuto”. E rispettato. Alla ricerca di un equilibrio tutt’altro che semplice tra il rispetto dell’originale e le esigenze, le caratteristiche, il ritmo e i modi di dire della lingua in cui un’opera viene tradotta.

Sara Crimi

Noi del ‘Corriere dell’italianità’ ne abbiamo parlato con Sara Crimi. Modenese, classe 1974, con un’esperienza ventennale nella traduzione editoriale, Crimi – con le colleghe Valeria Serena Gorla, Laura Tasso e Manuela Faimali – si è occupata per Mondadori di ‘Spare. Il minore’. Stiamo parlando del controverso libro-scandalo scritto dal principe inglese Harry con il Premio Pulitzer J. R. Moehringer, diventato un fenomeno editoriale su scala mondiale fin dalla sua prima settimana di vendite record internazionali.

Come si è svolto il vostro compito?
«È stato un lavoro di squadra, fatto alacremente e nel massimo della riservatezza. Le mie colleghe si sono suddivise le parti da tradurre. Io ho fatto una rilettura complessiva per garantire uniformità e coerenza linguistica all’opera, occupandomi di inserire tutte le modifiche che arrivavano in corso d’opera. Lo scorso anno abbiamo cominciato all’incirca a luglio inoltrato e abbiamo terminato la traduzione a inizio ottobre. Ma, anche a fronte delle correzioni che continuavano ad arrivare, la conclusione vera e propria è avvenuta a fine novembre».

Ha inciso, a settembre 2022, la scomparsa della regina Elisabetta II, la nonna del principe Harry? È stato detto, per esempio, che dopo quell’evento i duchi di Sussex hanno fermato anche la loro docu-serie di Netflix per apportare vari cambiamenti.
«Per quel che ha riguardato il nostro lavoro di traduzione di ‘Spare’, in effetti, in concomitanza della scomparsa della sovrana, è stato chiuso l’accesso ai server e ci è stato comunicato di attendere istruzioni, arrivate all’incirca due settimane più tardi, quando abbiamo potuto riprendere le lavorazioni. È cambiato il calendario legato alla pubblicazione: in origine il libro sarebbe dovuto uscire per il Giorno del Ringraziamento americano, a fine novembre, in vista delle vendite natalizie. Poi, invece, il debutto mondiale di ‘Spare’ è slittato al 10 gennaio».

Quali sono state le principali difficoltà?
«Ci siamo trovate di fronte a un libro scritto molto bene in originale. ‘Spare’ non presentava particolari criticità dal punto di vista della comprensione o della interpretazione. Data l’attenzione per questo manoscritto, avevamo addosso una forte pressione psicologica, per la costante paura di sbagliare anche solo la tonalità di un colore rispetto a come era indicata nell’originale. Non avevamo ampi margini di manovra, ma dovevamo attenerci scrupolosamente al testo originale e alle indicazioni che ci venivano date. In tutto sono arrivati nove manoscritti, con altrettante versioni diverse, completamente blindati. Lavoravamo su server criptati. I files nelle cartelle erano protetti da diverse password. L’ansia di non inserire tutte le correzioni richieste era alta».

Al netto dell’evidente bravura, secondo quali criteri siete state scelte proprio lei e le sue colleghe?
«Credo abbiano inciso l'anzianità professionale, la certezza dell’editore che saremmo state in grado di gestire la monumentale quantità di testo e rispettare le consegne nei tempi previsti, senza sgarrare nemmeno di mezza giornata, ma anche la lunga abitudine a lavorare in team, aspetto che, al pari degli altri, non è trascurabile».

In generale, qual è il cardine del lavoro di traduttrice?
«Il diktat della traduttrice professionale è restituire nella “lingua d’arrivo” – nel nostro caso l’italiano – un testo che sembra “nato” in italiano, ricreando un testo fluido, scorrevole, perfettamente leggibile, sempre nel rispetto dell’autore. Servono sicuramente emotività ed empatia, ma senza romanticizzare: senza la tecnica non si fa nulla».

A parte il caso “Spare”, nella sua lunga esperienza quali altri testi particolari o curiosi le sono rimasti particolarmente impressi?
«‘Sul filo di lana’ di Loretta Napoleoni, sulle metafore legate al lavoro a maglia, che aiuta a intrecciare relazioni in modo più creativo e a ritrovare un po’ il bandolo della matassa delle proprie vite, ‘Il vaccino che ha cambiato il mondo’ scritto da Joe Miller con Ugur Sahin e Özlem Türeci, i due creatori del BioNTech-Pfizer, e ‘L’anno dei due papi’ di Anthony McCarten su Ratzinger e Bergoglio».

Due libri che ha molto amato da lettrice e che avrebbe voluto tradurre?
«Risalgono alla mia infanzia: ‘Il meraviglioso mago di Oz’ di L. Frank Baum e ‘Il giardino segreto’ di Frances Hodgson Burnett».

Un desiderio che coltiva nel suo personale “giardino segreto”?
«Vorrei diventare fotografa di eventi musicali a livello professionale. Per ora lo faccio a livello dilettantistico, frequentando vari concerti underground, e ho già avuto qualche piccola soddisfazione».

La fotografia ha punti in comune con il suo mestiere quotidiano?
«In fondo anche quando si fotografa in qualche modo “si traduce” ciò che si ha davanti. Sempre mantenendo la giusta distanza».

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