Quando c’è il talento, prima o poi salta fuori
L’uccello dalle ali d’oro. La Recensione di Moreno Macchi

«Se lo ricopi cento volte
avrai acquisito le basi.
Se lo ricopi mille volte,
ti diranno che scrivi bene.
Se lo ricopi diecimila volte
sarai considerato
un notevole calligrafo»
«Non si diventa buddha stando immobili
e non si cattura il drago a mani vuote»
Yi Munyol
L’uccello dalle ali d’oro (romanzo)
Giunti Editore
Questa volta vi proponiamo un viaggio letterario in Corea, per scoprire un volumetto che abbiamo scovato per caso sullo scaffale della non ricchissima biblioteca della sala d’aspetto di uno studio medico, e lì chiesto in prestito per mera curiosità.
Abbiamo scoperto così che Yi Munyol è nato a Seul il 18 maggio del 1948, dove vive tuttora, e che il libro di cui stiamo per parlarvi non è recentissimo (è uscito in Corea nel 1982 e in Europa nel 1990) ma assai interessante, intrigante e curioso, perché lontanissimo dagli standard occidentali.
Costruito su un’abile alternanza (non sempre immediatamente percepibile) di presente e passato, il testo ci narra la storia del giovane Kojuk, orfano appassionato di calligrafia, affidato dallo zio all’assai severo e intransigente maestro Soktam, che subito precisa di essere d’accordo di occuparsi del ragazzo e di nutrirlo, ma non di educarlo o di istruirlo.
Kojuk non sarà quindi ammesso alla prestigiosa scuola di Soktam, che non vuole né accettarlo né riconoscerlo come suo allievo, e al quale affida quindi solo mansioni da sguattero e da umile lacchè casalingo. Ma il giovane ammira moltissimo l’arte del Maestro e dei suoi emuli e colleghi, così – in segreto e di nascosto – cerca di imitarne la bravura con carte e pennelli di fortuna, prima timidamente e poi, approfittando di un’annunciata assenza del Maestro, in modo un po’ meno discreto e con gli attrezzi di quest’ultimo.
Ma purtroppo Soktam rientra prima del previsto e lo sorprende mentre sta usando il suo prezioso materiale … Severamente redarguito, Kojuk si ritira ma, origliando silenziosamente alla porta, coglie una conversazione tra il Maestro e un suo ospite che stanno parlando di lui e di quello che ha disegnato. E l’ospite sta vantando in modo sperticato i doni straordinari (per non dir geniali) del ragazzo nella difficile pratica della calligrafia.
Questo l’incipit. Che scopriamo mentre, ormai vecchio e quasi incapace di muoversi se non per qualche brevissima uscita, Kojuk (amorevolmente accudito dalla figlia Ch’usu che, da ormai ben sette anni, se ne occupa devotamente) rivanga i suoi ricordi di gioventù sorseggiando una tazza di tè verde e assaporando l’impercettibile, timido odore dell’inchiostro ricevuto in dono da un amico, inchiostro che ormai non potrà mai più usare, ma i cui effluvi lo rallegrano e scacciano i pensieri più bui.
E quel profumo delicato, inavvertibile per i più, sembra agire sull’anziano artista come la celeberrima madeleine di Proust, perché - in una sarabanda di sensazioni, effluvi, sapori, luci, ombre e immagini - i ricordi affiorano nella mente dell’uomo: dalla guerra sino-giapponese, all’incontro con la donna che diventerà per breve tempo la sua amante e la madre di Ch’usu, dal disegno di un albero di prugne in gennaio tracciato su una sottoveste bianca immacolata, agli allettanti aromi degli straordinari e ricchi banchetti offertigli dai magnati dell’epoca durante i suoi viaggi, per onorarne il talento e le opere che va via via disseminando nel paese senza mai informarne il suo severo Maestro, che sicuramente avrebbe disapprovato il suo agire e la sua mancanza di quell’indispensabile modestia che caratterizza il vero grande artista.
Un ritorno al presente lo trova indebolito e debilitato, (il che preoccupa non poco Ch’usu) e nella quasi impossibilità di reggersi in piedi, proprio nel momento in cui sta per vestirsi con l’intenzione di uscire e andar per negozi - come sua consuetudine – a tentar di riacquistare i suoi dipinti che vuole a tutti i costi recuperare, forse per esorcizzare o scacciare il pensiero della morte che gli sembra incombente.
Il racconto è punteggiato da brevi ma profondi dialoghi tra Kojuk e il Maestro Soktam che (oltrepassando la loro incompatibilità e le loro divergenze ideologiche nonché la differenza di ceto sociale e di età) dissertano sulla funzione dell’arte, della scrittura, sul senso della vita, sulla paura della morte, sull’impermanenza dell’esistenza umana, sul flusso continuo e mutevole delle cose.
Gli altri testi di Yi Munyol (purtroppo assai difficilmente reperibili in traduzione italiana) sono Il poeta, Un piccolo eroe sbeffeggiato, Il figlio dell’uomo, Il nostro eroe decaduto e L’inverno di quell’anno.