Vita in piscina
Nuoto libero. La recensione di Moreno Macchi

«Esistono molte ragioni per trovarsi là sotto:
artrite, sciatica, insonnia, una protesi dell’anca
in titanio nuova di zecca, i piedi doloranti
e stanchi di aver calpestato l’arida terra per una vita»
«Ormai non dovrà mai più avere paura di perdersi.
Perché anche se lei non sa più dov’è,
noi lo sappiamo»
Ci sono autori che pubblicano un libro per ogni rentrée letteraria (in Francia nel mese di settembre appaiono fino a 600 nuovi romanzi!), ce ne sono che scrivono un libro nuovo per ogni premio letterario più o meno prestigioso, ci sono quelli che sfornano tre libri all’anno o anche di più (ma saranno loro a scriverli?) e poi ci sono quelli che ne scrivono quattro in una vita o magari uno ogni dieci, dodici anni come la bravissima Donna Tartt dell’eccellente Dio di illusioni o la pluripremiata, autrice del vendutissimo Venivamo tutte per mare, e cioè Julie Otsuka di cui ora parleremo proprio in occasione dell’uscita del suo nuovo testo a dieci anni dall’ultimo.
Ci sembra quindi assai giusto rallegrarci quando l’opera di uno di questi autori (nella fattispecie autrici) appare nelle vetrine della nostra libreria preferita, visto che siamo quasi sicuri di trovarci tra le mani (previo ovvio acquisto!) dei libri di una certa levatura.
C’è il mondo di sopra, quello là fuori, quello rumoroso, pieno di impegni, di problemi, di corse, di molte domande e poche risposte, ricco di imprevisti non sempre gradevoli, di cieli temporaleschi e di giorni ventosi o terribilmente afosi, quello degli appuntamenti importanti, delle spese al supermercato, delle visite in ospedale, dello stress, degli incontri casuali, delle famiglie, del lavoro, delle notti insonni.
E poi c’è il mondo sotterraneo. Quello della piscina, con le sue piste di nuoto, i suoi spogliatoi, i suoi occhialini da sub, con la sua temperatura costante sempre fissa sui 27 gradi, il suo caldo odore di cloro, le sue docce, le cuffie e i costumi da bagno variopinti in Elastam che migliorano la silhouette di certe donne (e che non producono alcun miglioramento in altre), il suo cielo dipinto a nuvole biancastre su fondo azzurro cupo.
Un mondo ovattato, dove il silenzio è interrotto solo dal rumore di un tuffo, di un battere di piedi o di una bracciata, dove non si interloquisce con gli altri, dove ognuno resta nel suo mondo e nella sua pista, quella dei rapidi, quella dei medi, quella dei lenti. Gerarchia che raramente viene scombussolata da qualche temerario che pensa di poter nuotare più velocemente, ma che deve quasi sempre rientrare nei ranghi e cioè ritornare nella sua pista di sempre perché il suo aumento di velocità era solo frutto della sua immaginazione o pura velleità.
Di fuori gli altri, qui sotto noi.
Perché è un anonimo «noi» la voce narrante del racconto, che ogni tanto ci parla più particolarmente di una certa Alice, che potrebbe essere il personaggio principale; la voce narrante si confonde (o si identifica) poi sistematicamente con le altre nuotatrici (e gli altri nuotatori) della ipnotica piscina sotterranea, nella quale si incontrano quasi esclusivamente gli habitués, dove tutti sembrano conoscersi, se non proprio bene almeno di vista, ma che comunicano assai raramente tra di loro anche se poco a poco il lettore riesce a conoscere i nomi di tutti (si presume) i presenti e il loro modo di nuotare, nonché il numero delle piste in cui si trovano a proprio agio.
Infatti, capita di incontrare persone nuove solo se - per distrazione o a causa dei due annuali cambi dell’ora solare in ora legale e viceversa - uno si confonde e arriva un’ora dopo / prima nel luogo dove tutto si dimentica e nel quale, per venticinque o più vasche, si vive in una sorta di paradiso acquatico dove tutto il mondo esterno scompare, neanche la piscina sotterranea fosse la mitica Shangri-La di Orizzonte perduto, nascosta alla vista di tutti, tra le nevi eterne dell’Himalaya.
Improvvisamente, un giorno sul fondo della piscina un nuotatore (o forse una nuotatrice non si saprà mai bene chi fu il primo ad avvistare la cosa), intravede una piccola crepa, una quasi impercettibile fessura esattamente sotto la pista numero quattro. Le interrogazioni sulla sua origine si moltiplicano: piccolo sisma? Illusione ottica? Macchiolina di ruggine lasciata da una forcina di Alice caduta sul fondo? (A volte la donna dimentica di mettersi la cuffia…) un oggettino smarrito non meglio identificato appoggiato di sghembo sulle piastrelle?
Accorrono vari esperti, e ognuno di loro fornisce la sua dotta spiegazione, ma le ragioni del minuscolo difetto (ma sarà poi davvero un difetto?) non sono chiare. O non sono convincenti. Comunque nulla di grave, si dice con insistenza da più parti. Ma una cacofonia di teorie bislacche fa capolino nella scatola dei suggerimenti messa a disposizione degli utenti, tra cui quella che la crepa, la lieve fessura appena riconoscibile a occhio nudo, potrebbe essere la porta di un altro universo, migliore del nostro, dove tutti sono bellissimi e nuotano come consumati campioni nei loro splendidi costumi da bagno variegati e scintillanti.
Però, malgrado tutte le rassicurazioni tecniche e ufficiali, alcuni disdicono l’abbonamento annuale alla piscina, altri non vogliono più nuotare nella pista quattro perché potrebbe portar sfortuna, altri trovano strane scuse per non farsi più vedere, altri svuotano non visti i loro armadietti nello spogliatoio e non tornano più. Alice cerca di non pensarci.
Poi, se per un certo tempo la piccola crepa rimane al centro di tutte le speculazioni e discussioni e viene perfino considerata da molti «l’inizio della fine», poco a poco quasi la si dimentica. Infatti, si sa: «Ci si abitua a tutto».
«Si è visto anche di peggio».
«Tutto ha la sua ragione d’essere».
Se la piscina è una metafora della vita, la minuscola incrinatura silenziosa laggiù sul fondo, ha qualcosa di assai simbolico nell’economia del racconto, qualcosa che ha a che vedere con Alice …
Ma noi non vi diremo di più.
Otsuka Julie
Nuoto libero (romanzo)
Bollati Boringhieri