Parità salariale: è ora che la tigre di carta mostri i denti
Cinque anni dopo la revisione dell’articolo sulla parità, il diritto a un salario uguale per un lavoro di uguale valore è rimasto un principio sterile. è giunto il momento di usare gli artigli e rafforzare il quadro giuridico, con direttive precise e controlli vincolanti.
Di Michael Steinke ufficio comunicazione Syna
Sulla piazza antistante la stazione di berna, i rappresentanti di cinquanta organizzazioni sindacali si sono riuniti davanti a una simbolica torta di compleanno. © Sindacato Syna 2025
In Svizzera, per un contratto a tempo pieno le donne guadagnano mediamente 1364 franchi al mese in meno degli uomini; una differenza salariale del 16,2 %. Secondo uno studio condotto a livello federale nel 2023, la metà di questo scarto sarebbe giustificato da fattori quali la professione, il settore, la formazione o la posizione. Ma l’altra metà non si spiega ed è, pertanto, potenzialmente discriminatoria.
Il principio della parità salariale è dal 1981 sancito dalla Costituzione, e dal 1996 è concretizzato nella legge federale sulla parità dei sessi, la cui revisione del 2020 ha stabilito che le aziende con oltre 100 collaboratrici e collaboratori debbano sottoporre i salari a un’analisi per individuare eventuali differenze inspiegabili. I risultati devono essere verificati da un organo indipendente e comunicati al personale e agli azionisti.
Un approccio valido, almeno sulla carta. Ma il Parlamento ha indebolito l’articolo a tal punto da renderlo pressoché inefficace. Travail.Suisse, che ha accompagnato l’attuazione della norma con il progetto RESPECT8-3.CH, constata purtroppo molte criticità lungo l’intero processo.
Portata insufficiente
Come detto solo le aziende con più di 100 collaboratrici e collaboratori sono obbligate a svolgere un’analisi dei salari, ovvero meno dell’1 per cento di tutte le imprese in Svizzera. È vero che queste aziende impiegano il 44 % circa delle salariate e dei salariati, dunque quasi la metà delle persone attive, ma per la maggior parte delle lavoratrici e dei lavoratori non è prevista alcuna analisi. È troppo poco. «L’obbligo va esteso alle imprese con più di 50 dipendenti», sottolinea, Yvonne Feri, presidente del sindacato Syna. «Inoltre, la Confederazione dovrebbe creare incentivi affinché anche le aziende più piccole procedano volontariamente all’analisi. Solo così potrà nascere un ampio dibattito sociale su salari equi».
Ma non è tutto: molte grandi aziende sono esonerate dall’obbligo di analisi. Queste eccezioni vanno limitate, in particolare per le imprese che partecipano alle commesse pubbliche. Chi viene indennizzato con denaro dei contribuenti deve essere soggetto all’obbligo di promuovere la parità.
Standard vincolanti in luogo di una varietà di metodi
La legge stabilisce che le analisi salariali debbano essere condotte secondo criteri scientifici e giuridici. Ma cosa ciò significhi concretamente rimane vago. Le aziende possono scegliere i metodi che meglio si adattano ai loro interessi. La Confederazione mette a disposizione un proprio strumento di analisi, utilizzato da circa il 75 % delle aziende, che garantisce risultati corretti e comparabili. I metodi alternativi devono orientarsi a questo strumento e l’Ufficio federale per l’uguaglianza fra donna e uomo (UFU) pubblica un elenco dei metodi autorizzati. Ciò aiuta a evitare malintesi nell’interpretazione, problemi già riscontrati in molte aziende.
Tuttavia, il controllo indipendente previsto dalla legge non è sempre garantito. Alcuni fornitori offrono pacchetti completi di analisi, revisione e certificazione, il che ne mina la credibilità. Bisogna porre fine a questa giungla di certificazioni. In futuro, il riconoscimento dovrebbe essere di esclusiva competenza dell’UFU. Anche la comunicazione richiede direttive chiare: una dichiarazione generica del tipo «abbiamo effettuato l’analisi: tutto a posto!» non può bastare.
Controlli regolari anziché esoneri definitivi
L’analisi salariale deve essere effettuata ogni quattro anni. Ma chi ottiene un risultato positivo può essere esonerato in modo permanente. Questo è problematico per due motivi: i metodi eterogenei da un canto, e la struttura salariale in continua evoluzione per via di nuove assunzioni, cambi di funzione o nuove responsabilità dall’altro.
Un’analisi regolare deve essere parte integrante di una moderna politica del personale. Travail.Suisse chiede che l’analisi venga ripetuta ogni quattro anni, a prescindere dal risultato precedente.
La discriminazione deve avere conseguenze
Particolarmente critico è il momento in cui un’analisi salariale rileva incongruenze. Ma al di là di una semplice comunicazione interna, non accade nulla! E questo non può bastare: i risultati andrebbero comunicati all’Ufficio federale per l’uguaglianza, che dovrebbe dal canto suo creare una panoramica nazionale e pubblicare studi periodici sulla parità salariale. È inoltre necessaria una lista pubblica con i risultati delle analisi.
In caso di discriminazione accertata, l’azienda deve essere obbligata ad adottare misure efficaci, in collaborazione con le parti sociali o con la rappresentanza del personale. L’attuazione deve essere pianificata, accompagnata e infine monitorata congiuntamente. Solo con il dialogo e la partecipazione si ottengono soluzioni durature. La discriminazione salariale non può restare senza conseguenze.
In conclusione
A cinque anni dalla revisione della legge sulla parità dei sessi, è evidente che le attuali disposizioni non bastano per garantire una vera parità salariale. Troppe eccezioni, standard poco chiari, assenza di conseguenze in caso di violazioni: il quadro giuridico va rafforzato, con direttive precise, controlli vincolanti e una vera collaborazione con le parti sociali. Il diritto a un salario uguale per un lavoro di uguale valore non deve rimanere un principio sterile. È ora che la tigre di carta mostri i denti.