«Senza le partigiane, oggi noi non saremmo qui»
Ospite della Dante Alighieri di Losanna, la scrittrice e storica Benedetta Tobagi, vincitrice nel 2023 del Premio Campiello con La Resistenza delle donne, ha dialogato con le studentesse dell’Università di Losanna, del Liceo Pareto e del Gymnase de Burier sul ruolo decisivo delle donne nelle origini della Repubblica italiana.
Di Alessandra Spada * 26 novembre 2025
© Archivio fotografico famiglia Salmoni Guidetti Serra
L’11 novembre, Mirella Alloisio, una delle ultime partigiane viventi, ha compiuto cento anni, sommersa da rose rosse, abbracciata a Silvia Salis e Vittoria Ferdinandi, sindache delle città in cui ha vissuto, Genova e Perugia, quest’ultima nel giorno del suo compleanno le ha conferito la cittadinanza onoraria. La storia della partigiana - Olga, Marika e Rossella i suoi nomi di battaglia, cambiati ogni volta che uno di essi veniva scoperto - merita di certo di essere raccontata. Ma di quel giorno ci interessa una frase della sindaca Ferdinandi: «Se Mirella e le sue compagne non ci fossero state, Silvia e io oggi non saremmo sindache», teniamola a mente.
Qualche giorno prima, il 31 ottobre, la scrittrice e storica Benedetta Tobagi è stata accolta dalla Dante Alighieri di Losanna in un’aula gremita dell’Università. Sullo schermo le bellissime immagini da lei ritrovate negli archivi di mezzo mondo; in sala un pubblico di tutte le età; le voci di Giulia Boero, Maria Ferreira, Alyssa Fernandes Ribeiro, Sofia Gaudino, Caterina Mamone, Stella Morel, Giulia Oriente, Alice Villa, studentesse dell’Unil, del Liceo Pareto e del Gymnase di Burier hanno trasportato, fin dentro le quattro mura dell’università - nell’unica nazione d’Europa che non abbia vissuto la guerra - le parole delle donne e delle ragazze di allora. Quelle che con l’8 settembre 1943 «irrompono sulla scena». E un testimone è passato di mano.
La prima domanda che ho posto a Benedetta Tobagi è stata: «Dopo tre libri e una tesi di dottorato sugli anni Settanta e il terrorismo, ti sei messa a lavorare sulla Resistenza, perché?». La sua risposta ha subito agganciato la discussione al periodo da cui tutto è nato: «Perché volevo capire e per farlo dovevo andare all’origine. Le radici degli anni Settanta e di tanti irrisolti del nostro paese, sono in quel periodo e nei conti che abbiamo, o non abbiamo, fatto con il fascismo e la Resistenza.»
Tornare alle origini della Repubblica per capire tanti dei temi di attualità odierna è diventato il percorso dell’incontro con la scrittrice a Losanna. A cominciare dalla «cura», quel lavoro ancora troppo femminile, essenziale e invisibile, grande termometro della disuguaglianza che mantiene l’Italia all’ottantesimo posto nel mondo secondo il Global Gender Gap Report del World Economic Forum, e proietta a centotrent’anni da oggi il momento in cui sarà colmato il divario economico tra le italiane e gli italiani.
Nonostante i dati dicano il contrario, la cura non ha genere, tutte e tutti abbiamo bisogno di cure nel corso della vita: quando nasciamo - i neonati umani sono i mammiferi più lenti a raggiungere l’indipendenza; quando invecchiamo, quando ci ammaliamo. E quando ci troviamo nel mezzo di un armistizio in cui il nostro re e il suo generale con le loro firme hanno stabilito che da un giorno all’altro quello che da sette anni era il nostro alleato, la Germania di Hitler, diventasse ora il nemico. L’8 settembre 1943, centinaia di migliaia di soldati italiani si sono ritrovati come in una partita di Risiko, pedine del colore sbagliato. Centinaia di migliaia di uomini e ragazzi, tra cui anche le leve di sedici e diciassette anni allo sbando.
L’unico modo per evitare che venissero uccisi nelle caserme senza neanche il tempo di alzarsi dalle loro brande, o caricati sui treni della deportazione, era nasconderli e rivestirli. Ed è in quel momento che «tocca alle invisibili entrare in scena», racconta Benedetta Tobagi.
Per le donne, si tratta di aprire la porta di casa e di dare il via a «un’operazione di maternage di massa» che trasforma la cura in «una delle prime forme di resistenza civile». Le donne accolgono, nascondono, nutrono, rivestono, si mettono a cucire abiti civili con quello che hanno in casa, bruciano le divise. E lo fanno rinunciando al vantaggio economico di incassare la taglia, senza chiedere da che parte stessero i ragazzi a cui davano aiuto, nella speranza che altrove qualcuno lo desse ai loro fratelli, figli, mariti. La loro «è una scelta non solo intrinsecamente “politica” nel senso profondo del termine, ma molto coraggiosa», spiega la storica nata a Milano nel 1977 (leggi nota biografica sotto).
Nessuno le aveva considerate, nessuno le aveva convocate, nessuno si aspettava che facessero tanto. Forse anche per questo lo sdegno è feroce e la reazione repentina, il 9 ottobre 1943, Mussolini da Salò emana un decreto che punisce con la pena di morte chiunque «presti aiuto o conceda ospitalità»: la cura diviene crimine. Ma il libro ci racconta che le donne si erano mosse già prima dell’8 settembre e «l’immagine della donna come grembo accogliente e imbelle, origine della vita e perciò naturalmente estranea alla lotta e alla violenza, non rende giustizia alla complessità del femminile, e nemmeno a ciò che accadde allora, né ci aiuta a capirlo veramente».
© Archivio fotografico Istituto piemontese per la storia della resistenza e della società contemporanea «Giorgio Agosti» / Torino
Così alla serata di Losanna, tra le parole delle partigiane trasportate dalle giovani voci delle lettrici, Benedetta Tobagi ci ha raccontato come quello della Resistenza delle donne fosse un universo complesso e articolato, in cui l’amicizia e il rispetto oltrepassavano le divergenze, ad esempio tra chi aveva scelto di imbracciare le armi e chi non ha mai voluto farlo. Come Lidia Brisca Menapace «non vorrei imparare a essere capace di sparare nella pancia di nessuno». Per alcune «rifiutare le armi è una conseguenza naturale della convinzione di essere impegnate in una “guerra alla guerra”».
Per altre invece la Resistenza e l’addestramento militare sono l’occasione per combattere alla pari con gli uomini, fino a comandarne le brigate, ma senza perdere il rispetto per chi aveva fatto scelte diverse, come dice Elsa Oliva: «Io avevo un fucile per difendermi, ma la staffetta doveva passare tutte le file, andare in mezzo al nemico disarmata, e fare quello che faceva. Se mi avessero chiesto come a tante altre donne di portare munizioni ed espormi continuamente al pericolo, avrei risposto “vacci tu che io rimango in postazione!”». Ma ciò che più ci parla oggi è il fatto che, per la maggior parte di loro, quegli anni rappresentano la conquista della libertà.
Lo dice Marisa Ombra: «Avevamo fatto il gran salto materiale, dalla ordinata vita quotidiana in famiglia a quella spericolata e massimamente incerta della guerra. Dalla tradizione della ragazza in attesa di marito alla trasgressiva esistenza in mezzo a bande di ragazzi in guerra. In guerra noi stesse. […] Una sconfinata libertà stava davanti a noi e il nostro entusiasmo, la nostra ingenuità ci conducevano verso fantasie in cui altri mondi, altri rapporti, altri sensi da dare alla vita ci apparivano come certezze. […] C’era stato il capovolgimento del nostro mondo».
Un capovolgimento senza il quale non ci sarebbe stato il 2 giugno del 1946, il primo voto delle donne, la nascita della Repubblica. Ma nonostante il quale l’epurazione delle donne dalla guerra partigiana comincia subito, già dalle sfilate della Liberazione. E tra le motivazioni c’è la più vecchia e squallida carta del patriarcato: la reputazione. Il pregiudizio diffuso sull’immoralità delle donne che sono andate in banda coi partigiani, fa sì che molti pensino sia meglio che non si facciano vedere, restino nelle retrovie.
Dopo aver combattuto, lottato, rischiato la vita, imbracciato le armi, comandato brigate, che tornino all’acquaio, a occuparsi della casa, zitte e buone. E così molte si ritirano in un angolo senza neanche chiedere il riconoscimento ufficiale del proprio contributo alla lotta partigiana, «io non ho fatto niente», dicono sotto lo sguardo severo dell’Angelo del focolare, o di mariti che rifiutano per loro la tessera di partigiano perché «una in casa basta»; non hanno la forza di pretendere ciò che meritano, si sminuiscono, alimentando per altre quattro generazioni la sindrome dell’impostora. «Guai a mettersi in luce a discapito di un maschio, marito o fratello che sia».
In quei primi momenti della Repubblica, il fascismo sembra sconfitto, ma il patriarcato gode di ottima salute, e per le donne come Ada Gobetti comincia «un’altra battaglia: più lunga, più difficile, più estenuante, anche se meno cruenta». Quella battaglia che continua oggi, c’è ancora molto da fare per poter seguire l’invito dell’excipit in cui Benedetta Tobagi ci incoraggia a «liberare la stirpe».
Possiamo cominciare a farlo riconoscendo ora alle partigiane quegli onori che non hanno osato pretendere allora. Con la consapevolezza, insieme alle sindache di Genova e Perugia, che senza la partigiana Mirella e le altre, noi oggi non saremo qui.