«Le Grand Ciel», quando il lavoro diventa fantascienza sociale
Presentato a Venezia nella sezione Orizzonti, l’esordio del regista franco-giapponese Akihiro Hata intreccia la tensione narrativa del thriller a una riflessione sul lavoro precario, sulla solitudine e sul senso di colpa.
Di Matteo Galasso inviato a Venezia
L’attore Damien Bonnard. © UFO Distribution / 2025
Un quartiere in costruzione, una periferia qualsiasi, e un cantiere che sembra vivere di vita propria. È da qui che prende forma Le Grand Ciel, esordio nel lungometraggio di Akihiro Hata, presentato nella sezione Orizzonti della 82ª Mostra del Cinema di Venezia. Al centro del film c’è Vincent, interpretato da Damien Bonnard, operaio che lavora in un cantiere destinato a trasformarsi in un nuovo insediamento residenziale. Ma qualcosa non torna: gli spazi cambiano, i colleghi spariscono, le regole sembrano non valere più. Fantascienza e realismo si intrecciano in un racconto dove l’organizzazione del lavoro assume tratti inquietanti.
Di giorno il cantiere appare come un luogo razionale, regolato, votato all'efficienza. Di notte si trasforma in uno spazio instabile e minaccioso, dove la materia sembra reagire e ribellarsi. Il cemento versato prende vita, gli operai vengono inghiottiti dal luogo stesso che stanno quotidianamente costruendo.
È qui che prende forma la scelta estetica e politica del regista. «Amo i film che sorprendono con proposte inattese», spiega Akihiro Hata. «Volevo intrecciare il dramma del lavoro, che è un tema internazionale, con una struttura narrativa vicina al thriller, lasciando spazio a echi fantascientifici. L’idea è nata da un fatto reale: un operaio morto in un cantiere e rimasto lì per giorni senza che nessuno se ne accorgesse. Un episodio che mi è sembrato irreale, quasi mostruoso. Pensare al luogo come a un organismo capace di divorare chi ci lavora mi è sembrato coerente con quella realtà».
Così il film si apre con la scomparsa improvvisa di un operaio immigrato, durante un turno notturno. Senza documenti, il suo caso non viene approfondito. Said, collega e amico di Vincent, sospetta un incidente sul lavoro non denunciato e parla apertamente di insabbiamento. La direzione archivia tutto come una semplice assenza. La tensione si diffonde tra gli operai, ma nessuno vuole rischiare il posto.
Vincent vive con la compagna e la figliastra in un appartamento provvisorio, ha accettato ore extra per riuscire a ottenere un alloggio nel nuovo complesso, lo stesso che sta contribuendo a costruire. È combattuto tra il desiderio di avanzamento e la crescente inquietudine per quello che sta accadendo intorno a lui. Quando scompare anche un secondo collega, le paure si fanno più concrete. Said cerca di coinvolgere i sindacati, mentre la direzione offre a Vincent la promozione a caposquadra.
Intanto la compagna — impiegata nell’ufficio comunicazione del cantiere — scopre che il suo contratto non verrà rinnovato. La prospettiva di un futuro stabile si incrina. Il rapporto tra Vincent e i colleghi si fa teso. La fiducia si sgretola, e ogni gesto è osservato con sospetto.
I piani inferiori del cantiere iniziano a mostrare anomalie. Si sentono rumori inspiegabili, alcuni spazi sembrano scomparire, altri non coincidono con le planimetrie ufficiali. Gli operai si organizzano per entrare di nascosto e cercare i colleghi scomparsi. I risultati sono vaghi, ma sufficienti a generare panico. Said viene trasferito, poi licenziato. Chi insiste viene isolato.
Sa sinistra: Tudor Aaron Istodor, Damien Bonnard, Samir Guesmi e Denis Eyriey. © UFO Distribution / 2025
A Vincent rimane una scelta difficile: accettare la promozione e mettere in salvo la propria famiglia, oppure schierarsi con i compagni. Le pressioni aumentano. I superiori lo coinvolgono in compiti più esposti, mentre a casa la perdita di reddito rende ogni scelta più urgente.
Nel cuore del film, il cantiere assume tratti simbolici. È una struttura che ingloba chi ci lavora, ne assorbe i corpi e cancella ogni traccia. L’ipotesi di incidenti nascosti si fonde con un’altra percezione, più viscerale: che sia il luogo stesso, con le sue regole e il suo ritmo, a divorare lentamente i lavoratori.
Quando Vincent forza l’ingresso a un livello interdetto, sperando di scoprire cosa sia successo ai colleghi scomparsi, la narrazione si avvicina al soprannaturale, senza mai perdere il contatto con la realtà. Non ci sono mostri né effetti speciali. La vera minaccia è l’organizzazione, capace di negare l’esistenza stessa delle persone, di cancellare responsabilità, nomi, corpi. La paura non è dell’ignoto, ma del «sistema».
Damien Bonnard descrive Vincent come un uomo in bilico. «È beau-père, possiede poco e desidera di più. Ho pensato ai miti del labirinto, a Metropolis, a Travail au noir, a certe tentazioni faustiane. Durante le riprese portavo con me l’accendino di mio padre, l’unica cosa che mi è rimasta di lui. Era un uomo che si è battuto per migliorare la condizione degli operai, forse invano. Il rischio, per Vincent, è quello di rifare lo stesso percorso».
Anche la costruzione scenografica riflette questa ambivalenza. «Abbiamo costruito un set che generasse oppressione», racconta ancora Akihiro Hata. «Ci siamo ispirati a progetti reali di città definite “futuristiche”, spesso fondate su scelte poco ecologiche e disumanizzanti. Da bambino entravo nei cantieri vicino a casa. Erano luoghi vivi, mobili, in trasformazione. Quel ricordo è entrato nel film».
La fotografia di David Chizallet segue questa linea, con una tavolozza fredda dominata da grigi e blu. La colonna sonora elettronica di Carla Pallone lavora per sottrazione, costruendo una tensione costante fatta di vibrazioni profonde e suoni metallici. Tutto nel film contribuisce a rafforzare l’idea di una «polvere mentale» che si deposita nei gesti e nei pensieri, come suggerito dal regista Akihiro Hata. Una polvere che permane, e che non smette di contaminare.