Waking Hours (Ore di veglia), testimonianza di un confine invisibile

Nei boschi fra la Serbia e l’Ungheria i registi italiani Federico Cammarata e Filippo Foscarini per caso si imbattono in un gruppo di migranti afghani che attendono il momento di oltrepassare il confine. Ne scaturisce un film, presentato alla Mostra di Venezia, che svela una realtà quasi dimenticata.

Di Matteo Galasso inviato a Venezia

 

Il film Waking Hours (Ore di veglia), presentato alla settimana internazionale della critica dell’82ª Mostra del cinema di Venezia, è nato sul campo, senza un piano stabilito. «Non era stato pensato così»: i registi Federico Cammarata (1993) e Filippo Foscarini (1990) spiegano al Corriere dell’Italianità come un progetto concepito con altre intenzioni si sia trasformato, passo dopo passo, in un atto di testimonianza.

L’idea iniziale era semplice: raggiungere la fascia di boschi al confine tra Serbia e Ungheria per filmare gli animali notturni e seguirne i movimenti quando la luce cala. Arrivati sul luogo, però, la realtà ha imposto un cambio di direzione. «Il quadro è cambiato», raccontano i due registi. «Ci siamo imbattuti in tendopoli sparse nella foresta, abitate da migranti afghani e non solo, che aspettavano il momento per tentare di oltrepassare, di nascosto, il confine con l’Ungheria». La scena appariva surreale: una doppia recinzione che tagliava la foresta in due e, dagli altoparlanti della polizia di frontiera, avvisi di sgombero che rimbalzavano nel silenzio.

«Da quel momento abbiamo capito che il film non poteva più coincidere con il progetto iniziale: qualcuno doveva testimoniare ciò che stava accadendo, e continua ad accadere, alle porte dell’Europa». Ne è così scaturito un lungometraggio uscito nel 2025 e subito selezionato per la mostra del cinema di Venezia.

La cronaca recente entra di riflesso nel racconto. «Dopo il ritorno al potere dei talebani, tra il 2022 e il 2023, lungo quella rotta sono aumentati i passaggi», spiegano Federico Cammarata e Filippo Foscarini. «Non ha avuto l’eco mediatica della rotta mediterranea del 2015, ma i numeri da allora sono molto cresciuti».

Il duo di registi racconta come la tensione al confine si percepisse con chiarezza: «Le ronde passavano più spesso, l’attesa si allungava e ogni occasione diventava preziosa». Pur affrontando un tema che richiama inevitabilmente la politica, i due autori hanno scelto un approccio diverso. «Il film non mostra statistiche, né intende fornire un quadro numerico. Il nostro unico obiettivo era raccontare le condizioni reali che molte di queste persone sono costrette a sopportare per anni».

Anche la lavorazione ha seguito questa linea. «Non abbiamo ricevuto alcuna autorizzazione», ammettono. «Eravamo a ridosso del confine senza mai oltrepassarlo». La troupe è stata ridotta al minimo per non alterare equilibri già fragili: «Nel clan che abbiamo seguito eravamo in due, affiancati da una ragazza che parlava serbo-croato e che ci aiutava a comunicare con gli abitanti dei villaggi vicini e, quando serviva, con le pattuglie locali». Questo ridimensionamento ha permesso di ridurre l’impatto sulle persone filmate e di aprire uno spazio di fiducia autentica. «Ci siamo avvicinati senza invadere, mantenendo sempre un atteggiamento discreto, accettando anche che a volte la macchina da presa restasse bassa o spenta».

 
 

Per garantire la sicurezza, Cammarata e Foscarini si sono dati alcune regole precise: «Restavamo lungo i sentieri che portano ai varchi e arretravamo senza esitazione quando la situazione peggiorava». Da quella posizione era possibile osservare e ascoltare senza diventare un ostacolo per chi, ogni notte, cercava di passare.

La frontiera, dicono, non è un concetto astratto ma una realtà materiale: «Due muri paralleli, in mezzo un corridoio per le ronde. Per superarla servono due scavalcate in pochi secondi». All’inizio la sensazione di rischio era forte: «Il clan più grande non ci ha permesso di riprendere. Alla fine siamo riusciti a entrare in contatto con un nucleo più piccolo, che ha accettato la nostra presenza». Da qui anche la decisione di proteggere i volti: «Non si tratta di una scelta estetica, ma di una responsabilità precisa verso chi è stato filmato».

La notte, che inizialmente era una necessità, è diventata parte integrante del linguaggio del film. «Frequentavamo gli accampamenti di notte perché era più sicuro, ma presto ci siamo resi conto che quello era il modo giusto di raccontare», spiegano. «Volevamo passare molto tempo con loro», aggiunge Cammarata. «Era necessario creare un contesto di relativa amicizia. Solo così il film poteva nascere davvero».

Lo sguardo del film rimane sempre un passo prima della linea di confine. «La cosa che ci interessava – dicono i registi – era raccontare queste persone proprio nel momento in cui vivono sulla soglia dell’Europa. Non seguiamo chi attraversa, ma restiamo vicino ai passeurs afghani che decidono quando e per chi sia il momento di tentare, e a quale prezzo». Figure spesso ridotte a ingranaggi anonimi tornano a essere uomini con responsabilità, stanchezze e contraddizioni.

A volte sono le stesse parole raccolte a incrinare le retoriche consolidate. «Mi ha colpito – racconta Cammarata – quando uno di loro ha affermato che in Serbia si vive e si lavora meglio che in Europa». Una frase che ribalta molti luoghi comuni e mostra quanto l’immagine dell’Europa si sia deteriorata per chi trascorre mesi in quelle notti.

I registi sono tornati sul confine in due momenti diversi, e già al secondo viaggio la situazione appariva mutata. «Abbiamo trovato più polizia e droni sopra le foreste. Il gruppo spegneva le luci prima del solito», ricordano. Un cambiamento che entra nel film senza enfasi, ma che si percepisce nei gesti quotidiani. Alla prima proiezione del film, due spettatori hanno indicato come più toccante la scena del pane impastato e cotto su piastre improvvisate. «In quei momenti conviviali il gruppo si ricompattava e divideva il poco che c’era», raccontano gli autori.

Il finale, invece, lascia il respiro sospeso e suggerisce che nulla sia risolto. «Un finale alla 400 colpi di François Truffaut», osserva Cammarata: «La camera termica trasforma i corpi in sagome lattiginose, riduce le figure a profili di calore. Il suono si interrompe e si vedono uomini pronti a scavalcare il confine». Foscarini aggiunge che quella sequenza è stata la prima ad esser stata girata: «Seguivamo un cacciatore serbo nelle aree degli attraversamenti, conosceva i punti migliori in cui fermarsi».

Il film si chiude senza offrire pacificazioni né risposte definitive. Il movimento continua oltre l’inquadratura, come se il bosco stesso rifiutasse un’ultima parola. «Per me gli europei sono crudeli», dice, a un certo punto, uno dei membri del clan di passeurs. La frase non viene commentata né contraddetta: resta sospesa nella stessa oscurità da cui è nata, accanto a una risata nervosa, vicino a una mano che sistema un telo, poco lontano da un ragazzo che osserva in silenzio il metallo della barriera.

 
Corriere dell’italianità


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