«Dalle tragedie come Mattmark serve trarre un insegnamento imprescindibile»
La segretaria del Partito democratico Elly Schlein ha voluto onorare la memoria delle vittime e la storia di centinaia di migliaia di italiane e italiani che hanno contribuito al benessere della Svizzera, e dell’Italia.
Di Matteo Galasso inviato a Mattmark
Da sinistra: Gian Lorenzo Cornado ambasciatore d’Italia in Svizzera, Elly Schlein segretaria del Pd, Toni Ricciardi deputato Pd.
Sessant’anni dopo la tragedia di Mattmark, in cui persero la vita 88 lavoratori - 56 dei quali italiani - l’Italia ricorda quel dramma non solo con dolore, ma anche come un monito ancora attuale. Ne abbiamo discusso con Elly Schlein, segretaria nazionale del Partito democratico, intervenuta in occasione della commemorazione ufficiale in Svizzera.
Il dramma di Mattmark ha rivelato quanto spesso gli emigrati fossero trattati come forza lavoro sacrificabile. Che lezione può trarne l’Italia di oggi, che accoglie a sua volta lavoratori stranieri in condizioni precarie?
Elly Schlein: La precarietà è una delle piaghe del nostro tempo. All’epoca, a Mattmark e più in generale in Svizzera, i nostri emigrati si sacrificavano per garantire un futuro migliore alle loro famiglie come fanno oggi tante persone che lavorano in condizioni inaccettabili in Italia. Tragedie come questa, così come quella di Marcinelle, ci impongono un insegnamento imprescindibile: il lavoro deve essere un diritto e un’opportunità per migliorare la propria condizione di vita e quella delle società in cui si vive.
Ho voluto fortemente partecipare al 60simo anniversario della tragedia per onorare la memoria delle vittime, così come la storia di centinaia di migliaia di italiane e italiani che hanno contribuito allo sviluppo della Svizzera e dell’Italia. Ma il modo migliore per onorarli è impedire che nella Repubblica fondata sul lavoro – come recita la Costituzione – si continui a morire di lavoro o, ancora peggio, di stage.
Mattmark ha evidenziato la totale assenza di sicurezza nei luoghi di lavoro. Oggi in Italia si continua a morire in fabbrica e nei cantieri: solo nel 2024 si sono contate oltre mille vittime. Come fermare questa strage silenziosa?
Dobbiamo investire molto di più sulla sicurezza. Nell’ultima legge di bilancio abbiamo destinato risorse per l’assunzione di nuovi ispettori del lavoro, ma non basta. Servono più prevenzione e formazione, una maggiore responsabilizzazione delle aziende e l’uso delle nuove tecnologie per rendere i luoghi di lavoro più sicuri. Va poi contrastata la logica dei subappalti a cascata, introdotta nel Codice degli Appalti dal governo Meloni-Salvini.
È noto che, in fondo a quella catena, il lavoro diventa più precario e meno sicuro. Lo confermano i dati su morti e infortuni. La dignità e la sicurezza del lavoro non possono essere viste come voci di costo su cui risparmiare. Mattmark ci insegna che quando si antepongono tempi e risparmi alla vita umana, il rischio aumenta. E a pagare, come allora, sono le persone che lavorano. È inaccettabile – ieri come oggi – che si esca la mattina per lavorare e non si faccia più ritorno a casa.
Considerando questa memoria, come reagisce – sia personalmente che politicamente – al decreto che limita lo ius sanguinis solo ai discendenti entro due generazioni e vieta la cittadinanza automatica ai figli di italiani con doppia cittadinanza?
Abbiamo contrastato questo provvedimento con tutti gli strumenti democratici a nostra disposizione, e continueremo a farlo. È inammissibile che italiane e italiani all’estero vengano considerati un «problema di sicurezza nazionale». Ci sono voluti decenni per conquistare la doppia cittadinanza. Solo in Svizzera, oltre la metà della comunità italiana la possiede. È un dato che va valorizzato, non demonizzato. Per questo, insieme ai nostri parlamentari eletti all’estero, porteremo avanti fino in fondo questa battaglia di civiltà.
Dopo Mattmark, gli italiani in Svizzera hanno ottenuto diritti e riconoscimento. Oggi, però, i figli degli italiani all’estero rischiano di perdere la cittadinanza. Come valuta questo paradosso?
Un governo che a parole si professa patriota, ma che in realtà nega la sua storia migratoria e il suo presente migratorio, non è degno di essere definito tale. La cittadinanza è il completamento di un percorso di appartenenza.
Sentirsi italiani, amare l’Italia, come fanno milioni di italiani e italiane nel mondo, significa identificarsi in una comunità, in valori, in appartenenza, valorizzarne la lingua, gli usi e i costumi, significa, in questo caso come non mai, riconoscersi nella storia plurisecolare dell’emigrazione italiana che ha dato un contributo insostituibile al benessere dei Paesi dove si è insediata ma pure, non dimentichiamolo, all’Italia e anche a molti dei suoi comuni anche più piccoli attraverso le rimesse.
In Italia, oltre un milione di persone nate e cresciute da genitori stranieri si sentono italiane, ma restano escluse dal riconoscimento formale. Le domande di cittadinanza sfiorano i due milioni. Come intervenire?
Si tratta di ragazze e ragazzi nati e cresciuti in Italia, che spesso parlano il dialetto locale e che in molti casi non sono mai stati nel Paese d’origine delle loro famiglie. Eppure, una burocrazia opaca e una visione politica miope fanno finta di non vederli. Noi abbiamo presentato più proposte di legge per rendere più semplice il percorso verso la cittadinanza, e continueremo a farlo. Per noi, chi nasce o cresce in Italia è italiano.
C’è un legame tra il lavoratore italiano sfruttato in Svizzera negli anni ’60 e il migrante che oggi lavora nei campi o nei cantieri in Italia senza diritti e protezione?
Assolutamente sì. Lo sfruttamento non è una novità. Saremo sempre dalla parte delle lavoratrici e dei lavoratori per migliorare le loro condizioni materiali. Da tre anni ci battiamo per introdurre un salario minimo legale, che in Svizzera esiste, come in ventidue Paesi europei. In Italia, invece, si finge che il problema non esista. Ma la realtà è che circa 4,5 milioni di persone sono povere anche se lavorano. Questo è inaccettabile.
Un tempo emigravano i nostri nonni. Oggi a lasciare il Paese sono soprattutto i giovani sotto i 34 anni. Tra il 2011 e il 2023, ne sono partiti oltre 550mila. Cosa racconta questo dato?
È esattamente quello che denunciamo da tempo. Per anni la destra ha alimentato un’ossessione sull’immigrazione, ignorando del tutto il fenomeno dell’emigrazione, in particolare quella giovanile. Tanti giovani validi, di fronte a contratti precari e stipendi bassi, si sono sentiti costretti a partire. E lo stesso governo che parla di patriottismo ha abolito le misure che facilitavano il rientro per chi era all’estero da più di due anni: cancellate solo per ragioni di bilancio.
Il problema non è che i giovani partano, anzi, viaggiare, conoscere e acquisire competenze è una ricchezza. Il problema è che al rientro non trovano le condizioni per mettere a frutto quanto hanno imparato. In passato si partiva con la speranza di tornare. Oggi con queste condizioni, chi parte difficilmente immagina di rientrare. C’è ancora molto lavoro da fare per garantire a chi nasce e cresce in Italia il diritto a restare e a costruirsi un futuro dignitoso.