Mattmark, 60 anni dopo, la storia sulla coscienza
Il 30 agosto 1965 la montagna ha seppellito 88 lavoratori di cui 56 italiani. Per i 60 anni è ripubblicato «Morire a Mattmark», il libro dello storico Toni Ricciardi. In questa analisi l’autore spiega perché non esiste ancora una memoria condivisa.
Di Toni Ricciardi 3 luglio 2025
«Non potevamo evitare la catastrofe, ma dobbiamo essere grati di vivere in un Paese che è in grado di gestire queste crisi. Abbiamo le conoscenze e i mezzi finanziari per farlo». Con queste parole, venerdì 30 maggio 2025, dopo aver sorvolato quanto, tre giorni prima, il 27 maggio, era stato spazzato via dal crollo di un milione e mezzo di metri cubi di ghiaccio, la presidente della Confederazione Karin Keller-Sutter si è rivolta agli abitanti del villaggio di Blatten (Vallese). Trecento persone erano state evacuate preventivamente. Il ghiacciaio del Birch, come gli altri nel resto della Svizzera, è costantemente monitorato.
Nonostante i passi avanti fatti nel monitoraggio dei ghiacciai, resta ferma la convinzione che questi eventi catastrofici esulino dal controllo dell’essere umano. Eppure, se si arriva a stimare quando accadranno, non si riesce ad impedirne gli effetti. L’essere umano si deve arrendere dinanzi alla potenza della natura? Quando e dove la Svizzera e il suo sistema di prevenzione e protezione civile hanno imparato a gestire fenomeni del genere?
Blatten dista poco più di sessanta chilometri da Mattmark, dove il 30 agosto 1965 crollarono 2 milioni di metri cubi di ghiaccio e roccia. La Svizzera ed in generale l’arco alpino sono stati colpiti da diversi eventi catastrofici: nel 2017 Bondo, nel 1991 Randa a 35 chilometri da Blatten, nel 1987 toccò alla Valtellina, fino al crollo del Mont Granier del 1248 che vide venire giù 500 milioni di metri cubi di roccia e detriti. Queste sono solo le principali catastrofi citate dalla stampa svizzera nei giorni successivi a Blatten.
Non è stato fatto alcun riferimento a Mattmark, sebbene quel 30 agosto 1965 sia stato uno degli eventi mediatici più seguiti, e ancora oggi rappresenti la più immane tragedia dell’edilizia industriale svizzera e l’ultima grande tragedia dell’emigrazione italiana. Nonostante la stessa presidente Keller-Sutter sottolinei come la Svizzera possegga le conoscenze per prevenire la perdita di vite umane, omette di ricordare la tragedia di Mattmark, che cambiò il sistema di monitoraggio e controllo dei ghiacciai. Infine, il passaggio sui mezzi finanziari è sintomatico dell’approccio con cui in Svizzera sono stati e sono attualmente affrontati gli eventi catastrofici.
È sufficiente rifarsi alla reazione violenta della natura, all’imprevedibilità – eppure i fatti di Blatten ci dicono l’esatto contrario – o forse, sessant’anni fa a Mattmark, le vicende che provocarono 88 morti potevano essere evitate? Il progresso per il progresso può giustificare quanto accaduto e come accadde? La rimozione di una tragedia causata dal crollo del ghiacciaio dell’Allalin (quota 2200 metri) – lo ripetiamo, la più grave tragedia industriale svizzera –, è un fatto, un atteggiamento voluto o casuale? La Svizzera – come ricordato dalla presidente della Confederazione a Blatten –, ha la capacità finanziaria e la ebbe all’epoca, ma ebbe anche la capacità di generare e dare giustizia?
Per capire come è stata gestito il crollo del ghiacciaio a Blatten nel maggio 2025, è necessario richiamare le vicende che portarono a quello che fu definito «il modello Mattmark», in termini di sicurezza sul lavoro. D’altronde, quanto accadde, come ogni catastrofe, generò un prima e un dopo, producendo cronologie storiche diverse a seconda dei territori interessati.
In questa storia restano tanti perché. Quali furono le ragioni che privarono 48 mogli dei loro mariti, 85 figli dei loro padri e 107 tra genitori, fratelli e sorelle dei propri cari? Perché non ci fu giustizia, perché dei 17 rinviati a giudizio per omicidio colposo nessuno fu condannato, e perché, nel processo di appello, i familiari delle vittime furono condannati al pagamento della metà delle spese processuali?
La decisione di ripubblicare a distanza di dieci anni Morire a Mattmark. L’ultima tragedia dell’emigrazione italiana (Donzelli) nasce dalla volontà, da un lato, di chiedere una assunzione di verità storica, non giudiziaria e, dall’altro, per ricordare a noi stessi e alle classi dirigenti quanto sia importante non dimenticare il nostro passato migratorio, che in realtà è un presente migratorio. Nel 2024, gli espatri dall’Italia sono stati 190mila.
La Svizzera continua ad essere una delle principali mete attrattive per la nostra mobilità – più di 12 mila per le statistiche italiane, 40mila per quelle svizzere –, la terza comunità italiana nel mondo, con oltre 700mila residenti di cui il 65% ha la doppia cittadinanza. Il presente, coniugato al passato, dovrebbe farci riflettere con più cautela e cura quando si parla e legifera in materia di italiane e italiani all’estero.
La nostra diaspora non può ridursi a discorso paternalistico, ma merita rispetto ed attenzione quotidiana. Non stiamo solo parlando di passato, bensì di presente e futuro. La non delicatezza, ad esempio, con la quale è stata limitata la trasmissione automatica della cittadinanza (leggi qui), che colpirà la comunità residente in Svizzera, rischia di passare alla storia come l’ennesima ingiustizia che le eredi e gli eredi di Mattmark subiranno.
Inoltre, tra le motivazioni di questa nuova edizione, restano quelle di dieci anni fa: capire perché i fatti andarono come sono andati, quali furono il contesto e gli attori, come Mattmark cambiò la Svizzera, e l’Italia. Negli ultimi dieci anni Mattmark è riemersa dall’oblio, dall’essere una Marcinelle dimenticata. Nonostante questo, ancora oggi, ed i fatti di Blatten lo confermano, non riesce ad essere ricordata per quello che è stato. La memoria per un evento del genere si manifesta indubbiamente in diverse modalità.
Ne esiste una collettiva dei luoghi, nel Vallese come nei tanti comuni italiani fino ad allora sconosciuti, che hanno vissuto il lutto collettivo, e una privata, che riguarda le famiglie delle vittime. Proprio grazie a questa, abbiamo scoperto in una delle tante presentazioni del libro fatte nel 2015, che l’ultima salma fu rimpatriata solo nel 1967. A fianco a queste memorie, esiste quella delle associazioni – l’Associazione dei bellunesi nel mondo, nata nel 1966, o le attività che l’Associazione Italia-Vallese realizza nel Cantone –, ma non esiste ancora una memoria condivisa. Esiste la verità storica, da arricchire e aggiornare, che non può mai esser cancellata.
Ambrose Bierce definisce l’emigrante come «un ingenuo convito che un Paese possa essere migliore di un altro». A distanza di 60 anni, la Svizzera fu migliore dell’Italia, l’Italia e la Svizzera sono state all’altezza della storia? Facendo nostre le parole di Tina Merlin, «non per niente andare a fare l’operaio, prender paga, è sempre stato ed è ancora considerato un avanzamento sociale, un gradino più su, una sicurezza di vita», ne è valsa la pena?